Tre donne, tre archetipi, tre modi diversi di intendere la femminilità.  Medea, Alcesti e Ifigenia, escono per una volta dalle spirali di tragedie tenebrose, si scrollano di dosso la polvere di versi arcaici, gettano via le regole della metrica e provano semplicemente ad “essere”, ognuna a modo suo. Si presentano, si propongono, si scontrano. Ognuna con le sue istanze, le sue convinzioni e le sue lacrime. C’è qualcosa di grandioso in ciascuna di loro e anche qualcosa di profondamente irrisolto. Forse proprio quella apparente impossibilità di definirsi in un altro modo che non sia la relazione all’altro: moglie di, madre di, figlia di …

 

E’ davvero un bellissimo esperimento quello di Francesca Garolla, autrice del testo “SOLO DI ME. Se non fossi Ifigenia sarei stata Alcesti o Medea”, appena andato in scena al Teatro I di Milano per la regia di Renzo Martinelli e  le interpretazioni di tre attrici intense e bravissime:  Anna Della Rosa, Paola Tintinelli e Anahi Traversi.

“Questa opera – spiega l’autrice – fa idealmente parte di un trittico di testi che non sono stati, in realtà, pensati insieme, ma a posteriori ho realizzato che in fondo c’è qualcosa che li accomuna: il tema dell’eredità sia familiare che storica e culturale. E’ questo che lega questa opera alle altre due che sono “N.N. Figli di nessuno” e “Non correre Amleto”.  In “SOLO DI ME”, le figure femminili in scena  sono in realtà archetipi, figure bidimensionali, come se fossero due modi diversi di intendere la femminilità. Da una parte c’è quello più tradizionale, dall’altra quello più moderno, aggressivo, maschile. Ad accomunare queste figure femminili c’è però la tensione al sacrificio inteso come offerta di se stesse. Alcesti rinuncia a se stessa per farsi in qualche modo santa, Medea sacrifica i figli per farsi dea, Ifigenia vuole diventare un’eroina attraverso la morte per mano del padre ”.

Grazie ad un uso sapiente della scrittura e alla capacità di distillare, sintetizzare l’essenza di storie e personaggi tanto antichi, Francesca Garolla riesce a rendere miti millenari contemporanei e universali.

“Parto sempre da temi che sento urgenti – continua – ma con la necessità di renderli universali. Il mito si presta a questa operazione. Rispetto al mito antico oggi si è perso quel senso di fatalità, di ineluttabilità del proprio destino a cui è subentrata la coscienza e la possibilità di scegliere. I miti oggi sono dunque pretesto, offrono un contesto in cui poi mi muovo liberamente. Perché ancora oggi anche noi siamo “vittime” di condizionamenti sociali e culturali. Il fatto di essere non è un diritto assoluto come per gli uomini. Dobbiamo lavorare per affermare noi stesse e poi decidere il come”.

Un cammino tutto in salita, che ci accomuna e ci rende di volta in volta sodali e carnefici.

 “Per questo ho scelto di dedicare questo testo a tutte le donne che non mi sono piaciute perché molte delle cose che metto in scena sono state dette a me e mi hanno colpita”.

Le donne, dunque, e il difficile cammino all’affermazione di se stesse. Una affermazione che sembra non poter prescindere dall’estremo sacrificio di sé. Come ifigenia, convinta dalle altre due ad accettare il suo destino e ad immolarsi per conquistare l’eterna, perfetta bellezza. Ifigenia che sale sull’altare e dona il suo cuore rosso su un candido vestito da sposa, chinando la testa e accettando l’inaccettabile.

O forse no …

Gloria Bondi
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