Al Piccolo Teatro Studio Expo di Milano, lo scorso fine ottobre 2011, è andato in scena una delle opere più incantevoli del regista tunisino contemporaneo Fadhel Jaïbi.

Classe 1945, fondatore, insieme alla moglie, della compagnia teatrale “Nouveau Théâtre de Tunis”, l’autore, dopo aver firmato numerosi allestimenti tra cui si enumerano “Corps otages” e “Medea” di Euripide, sfida il pubblico riproponendo “Amnesia”, il suo indiscusso capolavoro che ha anticipato la Primavera Araba.

“Essere un cittadino che esercita liberamente il proprio diritto di critica, che vive la propria responsabilità di individuo: questa è la mia aspirazione.Abbiamo avuto il coraggio, forse l’incoscienza, di parlare di politica e società come nessuno aveva fatto mai”. Così dichiara esplicitamente Jaïbi che, con licenza poetica e una lucidità aggressiva, ma mai didascalica, apre il suo spettacolo con una litania funebre: in silenzio undici persone, tra cui uomini e donne, vestiti di nero dalla testa ai piedi, sfilano in modo commovente accanto allo spettatore: si siedono, dormono, muoiono dopo un forte fragore di spari a ripetizione. Come tristi esempi di un fatalismo rassegnato sotto una dittatura criminale

Chi abita in Tunisia perde nome e identità e, quindi, è giusto finalmente mostrare la lenta distruzione spirituale degli individui, secondo un preciso disegno politico. La stessa destituzione del protagonista, Yahia Yaïch, diplomatico che comincia a risultare un po’ troppo scomodo a qualcuno, fa eco alla logica mafiosa di Stato e il calvario psicologico, cui assistiamo, sembra un lunghissimo viaggio surreale dell’orrore.

Il regista, rigoroso a livello stilistico, si fa testimone di un preciso momento storico, rappresentando il dramma di coscienza e il violento contrasto di un singolo, cui viene “estirpato” il suo ultimo barlume d’uomo, perché in pasto all’oscena pancia del potere. L’esecuzione silenziosa, cui viene sottoposto Yaïch, a causa del forzato internamento psichiatrico, rivela un assolutismo radicale contro cui non vi è rimedio, se affrontato in solitudine.

Ma lo stato confusionale, lo sragionare confuso e allucinatorio di una singola voce, sintomo di una fragilità originata dalla violenza, si fa inoltre metafora della condizione medesima di un Paese oppresso.

I giovani si fanno tagliare la lingua: non credono a nulla, vivono secondo stereotipi, non lottano contro la quotidiana necessità di restare vivi, con estrema indifferenza alla riconquista di qualcosa di innovativo.

Allo stesso modo dell’ormai epilettico protagonista rinchiuso in clinica, sono privati delle loro libertà a causa dell’oblìo, di un incubo che spodesta qualsiasi genere di personalità: abitano un luogo umido, morboso, disequilibrato ideologicamente, dove l’orizzonte si appiattisce in un bianco e nero geometrico, del tutto anonimo.

Fadhel Jaïbi si appella ai suoi cittadini, per non dimenticare i propri diritti sotto la dittatura di Ben Alì (ad oggi fuggito in Arabia Saudita), portando avanti la causa abolizionista quale urgenza primaria per l’emancipazione, abbagliando il teatro che lo ospita di una dolorosa luce.


Piccolo Teatro Studio Expo-Milano

 

Di Jalila Baccar e Fadhel Jaïbi, Regia Fadhel Jaïbi, con Jalila Baccar, Fatma Ben Saidane, Sabah Bouzouita, Ramzi Azaiez, Moez M’rabet, Lobna M’lika, Basma El Euchi, Riadh El Hamdi, Karim El Kefi, Khaled Bouzid, Mohamed Ali Kalai.

 

Valentina Giordano
Latest posts by Valentina Giordano (see all)